sabato 12 marzo 2011

Caro Amico ti scrivo... così mi distraggo un po'...

Mio caro Jambo,
parto con una buona notizia... mi sento meglio e la verità è che sono stato lontano dalla forma ideale fino ad una settimana fa'... ho fatto altri esami specifici e sono in forma come un leone ... dicono. Ed è vero, comincio a risentirmi in me. Qualche problema agli occhi, continuo a vedere macchie nere che si muovono ... ma le retine sembrano resistere e comunque abbiamo i mezzi per intervenire se fosse mai necessario. Quindi ci vediamo in Etiopia o Kenya... devo verificare per il tuo visto. Ti faccio sapere quanto prima.
Ho passato il primo periodo in Italia con problemi alle orecchie, agli occhi, senza energia... e ti dico la verità: è stato meglio così. Perchè mi ha dato modo di non sentire, di non vedere... di non rientrare pienamente in questo meccanismo che trita le persone togliendo loro sane aspirazioni, possibilità di sognare un futuro almeno sereno, che in cambio di tecnologia e "benessere" regala attacchi di panico, nevrosi e dipendenze... Quando siamo partiti sapevo di voler prendere una pausa. Ora so perchè: tutto questo non ha senso. Viaggiando insieme, e recentemente leggendo la storia che ci hai mandato mi sono sempre più reso conto che qui abbiamo le possibilità per una vita straordinaria, ma non abbiamo la capacità di sceglierla... spesso è una questione di coraggio, più spesso una costrizione fatta di responsabilità e debiti, altre volte mancanza di esempi vincenti che spronino al cambiamento. Fatto sta che qui tutti si lamentano ed in pochi fanno qualcosa per cambiare, non dico il Mondo che appare irraggiungibile, ma almeno le proprie vite. E si cerca di salvare la propria posizione con mille affanni, e che inesorabilmente si sgretola in questa crisi sistemica che fingono di non vedere.
Pensa se solo fossimo davvero capaci di guardare un po'oltre, se fossimo davvero capaci di scambi reali, inteso come veri. Anche questa cecità fa' pena caro mio.
Quanto bene potremmo darci, attingendo proprio da questi luoghi in cui la vita è un processo terribile e straordianrio al contempo. Ma che sembra avere un senso almeno.  Magari dedicando un po' delle nostre risorse...???
Il problema è che attingere significa ormai conquistare, invece che imparare, respirare, osservare, gustare. Scambiare.
 Beh mi consolo pensando che nel nostro piccolo è quello che stiamo facendo, in cambio di poche risorse che infondo riusciamo a destinare a parte di questi nostri vicini, stiamo scoprendo un corso di formazione alla vita che non temo di definire straordinario. E di questo ti ringrazio Amico Mio. Ti porto il calore e l'affetto di tutte quelle persone che ci testimoniano una stima incredibile, emozionante. Il blog è seguito da tanta gente e molti ci stanno conoscendo così. Anche idealizzando e li riporto alla realtà quando posso. Immeritato diresti tu, e sono d'accordo. Ma bilancia tutti quelli che invece non capiscono e ci liquidano con battute e sarcasmo di basso profilo... ovviamente mai di persona.. ma loro non contano e non conteranno mai. Nuove persone aiutano il network e stiamo progettando eventi molto importanti, a Nairobi andremo a visitare oltre il Children Village anche Flying Doctors ed altre realtà ... sto cercando di organizzare le riprese per un cortometraggio.. ti spiegherò. Le tue foto diverranno una mostra al rientro dall'avventura, quindi non smettere mai di scattare...
Un'ultima cosa: ho conosciuto delle persone straordinarie in seno ad alcune aziende importanti... e questo mi rende felice perchè se si moltiplicano interlocutori con questo spessore umano in seno a realtà di questo livello allora davvero c'è speranza... non dico di cambiare il Mondo, ma almeno di parlare di poter cambiare il Mondo. Quella piccola porzione di Mondo in cui potremo intervenire. E come ci hai ricordato c'è chi lascia gli studi per un valore di venti Euro... Qualcosa possiamo fare.
Ti saluto Amico Mio in attesa di riprendere il cammino insieme. Ho messo queste foto, poi mi è venuta voglia di parlarti, non potendo ... ti ho scritto.
Max


da Massimo ... una storia dall'Africa ... che in fondo parla anche di noi... Terza ed ultima parte


Insieme a Jean-Pierre abbiamo fatto forse una cinquantina di chilometri in tre giorni; quasi di corsa. Lo conoscono tutti, nei piccoli villaggi che attraversiamo. Lui, però, non saluta tutti: sembra molto selettivo. MI dà un po’ fastidio. Non risponde ai bambini e non saluta quasi mai le donne. Ovviamente, mentre trotto al suo fianco, lo qualifico all’istante come un miserabile maschilista. D’altra parte, viene da una cultura di spaventosa sottomissione delle donne. Nei villaggi, gli uomini stanno sotto gli alberi a far niente e le donne fuori nel solleone a fare i lavori duri: raccolgono paglia o legna da ardere; trasportano l’acqua sulla testa in grandi recipienti; si spaccano la schiena per pestare il miglio nei mortai, stanno appresso a capre e galline. E intanto, curano e crescono i bambini. Jean-Pierre viene da questi costumi; non c’è da sorprendersi – mi dico – per il suo atteggiamento verso le donne.
Però, forse, c’è anche qualcos’altro da capire: potrebbe essere tutto un po’ più complicato. Una sera, dopo avermi chiesto se ho mogli o figli (il singolare non è contemplato) Jean-Pierre mi spiega perché non può avere una fidanzata. Non importa se s’innamori o meno: è semplicemente troppo povero per pagare alla famiglia della sposa il prezzo della dote. Qui funziona così: si individua una ragazza e si offre al padre un congruo valore per la dote. Il padre valuta l’offerta e, se la trova conveniente, acconsente al matrimonio. Qualche volta, la ragazza viene informata: non è un elemento essenziale della procedura. Tradizionalmente, una dote ragionevole consisteva in tre o quattro capre (valore: circa 30.000 cfa, o 45 euro, l’una), più una quantità di miglio equivalente alla metà del fabbisogno annuale per la famiglia della sposa, più un otre di birra di miglio chiara e uno di birra di miglio rossa. Oltre a tutto questo, la famiglia dello sposo doveva sobbarcarsi i costi per la grande festa di matrimonio, che dura due giorni: carne e birra per tutti gli invitati, che in pratica sono tutti gli abitanti di due o tre villaggetti del circondario. Un grosso impegno finanziario, per una famiglia normale.
Negli ultimi anni, poi, mi spiega Jean-Pierre, le cose sono drasticamente peggiorate. I”ricchi”, identificati nei proprietari degli alberghi o ristoranti, nei possessori di un mezzo di trasporto a motore e – odiatissimi, non so perché, da Jean-Pierre – nei padroni delle piccole mandrie di vacche che abbiamo incontrato; i ricchi, dicevo, hanno cominciato a offrire per dote delle somme folli. Fino a due o tre vacche per una moglie (l’equivalente di 3-400.000 cfa); e poi varie casse di birra ‘vera’ e diavolerie come delle piccole radio a transistor, cinesi, naturalmente. L’effetto di questa manovra inflattiva è moltiplicato dal fatto che, secondo la religione animista dei kapsiki, non c’è alcun limite al numero di mogli che si possono avere. Tutto dipende esclusivamente dall’ammontare delle doti che ci si può permettere di pagare. Risultato: per un ragazzo povero come Jean-Pierre, e per decine di altri come lui, sta diventando impossibile trovare una moglie e formare una famiglia. Quindi, se non trova un modo per guadagnare dei soldi, con l’impiego nell’esercito o qualcos’altro, Jean-Pierre rischia anche il celibato forzato.
È una disgrazia in sé e per sé. Esagerata. Ed è anche uno stigma sociale. Il punto è che ‘tutti’ sanno che sei troppo povero per sposarti; i ragazzi ricchi non ti frequentano; i padri di figlie femmine ti vedono come il fumo negli occhi; e le ragazze, mediamente, ti evitano o ridacchiano fra loro, quando passi. Si capisce che è dura. Poi uno diventa smargiasso e irritante. E non chiede niente e pretende di sapere tutto. E ha un culto ridicolo della forza fisica. E vuole andare nei marines. E ha un atteggiamento maschilista. E mi fa così tanta pena.

domenica 6 marzo 2011

da Massimo... seconda parte una Storia per raccontare un po' d'Africa.






Seconda parte... una storia per raccontare un po' d'Africa.

Jean-Pierre è probabilmente l’unico della sua famiglia che ha studiato – ha fatto le elementari e qualche anno di medie – parla francese e un po’ d’inglese. A undici anni andava a piedi da Rhumsiki al paese vicino per frequentare la scuola; tre ore di cammino all’andata, con partenza alle quattro e mezza ogni mattina, altrettante al ritorno. Ha smesso di studiare perché la scuola costava troppo: 12.500 cfa l’anno per l’iscrizione: un po’ meno di venti euro.
Rhumsiki è il villaggio più grande della zona e accoglie abbastanza turisti. Per questo ha un’economia più sviluppata degli altri villaggi. E poi ci sono l’energia elettrica, l’acqua corrente – almeno negli alberghi – e la copertura telefonica. Jean-Pierre ha lavorato tre anni in uno degli alberghetti del paese: senza coscienza né alcuna ironia, lo hanno chiamato ‘Petit Paris’. Si trovava bene, faceva un po’ di tutto: lui dice che era diventato il gestore e che l’albergo andava a gonfie vele. Poi, un compaesano ha ‘comprato’ il suo posto di lavoro; ha dato dei soldi al padrone dell’albergo e ha preso il posto di Jean-Pierre, che è stato licenziato da un giorno all’altro. Adesso – dice con soddisfazione – il ‘Petit Paris’ va malissimo, i turisti non ci vanno più; la moglie del padrone gli ha chiesto di tornare, ma lui – naturalmente! – non ci pensa nemmeno.
Ho chiesto a Jean-Pierre se vuole continuare a fare la guida. Mi ha risposto che non è un mestiere con cui campare; forse, quando sarà vecchio: ma adesso lui ha bisogno d’altro. Dice che tutti i posti di lavoro, qui nel nord del Camerun, si comprano. Se non hai i soldi non puoi nemmeno cominciare a lavorare: non ti resta altro da fare che coltivare la terra per sfamarti. E’ quello che Jean-Pierre non vuole rassegnarsi a fare. La sua idea, per evitare la sorte che non vuole accettare, è di entrare nell’esercito. Gli servono 50.000 cfa per provare a entrare nel ‘BIR’ – una specie di corpo speciale di intervento rapido: i marines del Camerun, a quanto capisco.
Ha già provato una volta: ha pagato la cifra e ha fatto un anno di addestramento durissimo. Quaranta chilometri di marcia con un sacco da cinquanta chili in spalla. Oppure: venticinque chilometri di corsa con venticinque chili in spalla. È una specie di gara a eliminazione: chi arriva fra gli ultimi viene escluso dal corso e va a casa. Mi ha raccontato di ragazzi morti d’infarto durante le prove. Jean-Pierre ha finito l’addestramento, ma non è stato preso lo stesso; alla fine, tra i superstiti, c’è un’estrazione a sorte: il suo nome non è uscito. Lo racconta senza rabbia né senso d’ingiustizia; è una cosa che è successa. Ha deciso di riprovare; risparmia per mettere insieme i 50.000 cfa che gli servono; poi farà un altro anno di addestramento. Dice che è l’ultimo tentativo; se fallirà un’altra volta, si rassegnerà a fare il contadino, come il resto della sua famiglia. “Coltivare miglio e arachidi per sfamarsi; così per tutta la vita, fin quando muori”.
Ho provato a chiedere se non ci sono delle alternative meno folli. Perché non provare ad andare in città – Maroua è a tre ore di autobus – per trovare un lavoro? Risponde che le industrie non ci sono; commercianti e artigiani impiegano solo i propri figli, oppure offrono salari da schiavo; per ottenere un posto pubblico, di qualunque genere, si devono pagare cifre assurde. Il ‘posto’ nei marines è il meno caro di tutti. Questa assenza delle industrie, non solo in Camerun, ma in tutta l’Africa occidentale sotto il Marocco, per quel che ho visto, è evidentissima. Non ci sono le fabbriche. A parte qualche raffineria e qualche centrale elettrica, non ci sono quasi edifici industriali. Mi ricordo una fabbrica di birra, una di mangimi, una segheria; poco altro. Ci sono dappertutto i magazzini, però, per tutta una quantità di merci disparate, che riempiono gli onnipresenti mercati settimanali e i giganteschi mercati fissi delle capitali: vestiti e scarpe, attrezzi e materiale elettrico, secchi di plastica e pentole di latta, telefoni cellulari e accendini, cianfrusaglie di ogni genere. Sono, soprattutto, cose di qualità scarsa e prezzo bassissimo, d’accordo: però si vendono, hanno un mercato.
Il problema, infatti, non è l’assenza di un mercato per la produzione industriale. Gli africani sono poverissimi, ma consumano anche loro. Il problema è che tutto quello che si vende e si consuma qui è fabbricato altrove. Si trova ancora, nei mercati, un sacco di schifezze prodotte in Francia o più in generale in Europa; perfino qualcosa che viene dall’Italia – ho trovato delle sconosciutissime marche italiane di pasta, d’olio d’oliva, di crema di nocciole e di vermuth(!), non chiedetemi cosa ci sia dentro. Ma il grosso, ovviamente, viene dalla Cina. I magazzini dei commercianti cinesi all’ingrosso sono in tutte le piazze delle città africane. La merce arriva con i grandi cargo che scaricano nei porti sul golfo di Guinea e viene trasportata dai camion in tutto il continente; nel mercato più povero del villaggio più sperduto, troverete ancora ciabatte, mastelli di plastica, batterie e magliette (taroccate, di tutte le grandi squadre di calcio europee) prodotte in Cina. Compreso il trasporto via mare, il costo del prodotto è così basso che impedisce il sorgere di un’industria locale.
È la solita storia del neo-colonialismo: non dovrebbe sorprendermi, però, vista da vicino, fa male. E passa un po’ di carta vetrata sulla faccia delle mie solide convinzioni a favore del mercato. Con la panzana del ‘libero commercio’ e con le relative politiche, imposte da Banca Mondiale e WTO, l’Africa non potrà mai sviluppare la propria industria ed è condannata a restare un mercato, povero ma non irrilevante, per le merci di bassa gamma dei Paesi industriali di turno. Sono solo cambiati i beneficiari. Per secoli gli inglesi hanno invaso d’immondizia il loro impero, distruggendo – soprattutto in India – le industrie locali; poi hanno cominciato a fare lo stesso le altre potenze coloniali europee; dopo sono venuti gli Stati Uniti e il Giappone. Adesso tocca ai cinesi. Tutti quanti, senza alcuna eccezione storica o geografica, protezionisti a favore della propria industria (non parliamo dell’agricoltura, perché c’è da vergognarsi) e “free-trade” per massacrare i mercati dei paesi poveri.
Intanto, senza i posti di lavoro che l’industria garantirebbe, gli africani che abbandonano le campagne in cerca di una vita meno indecente non possono che ammassarsi nelle periferie delle città: a fare niente. E infatti li si vede a decine di migliaia a Dakar come a Bamako, ad Accra come a Yaoundé. A far niente, o meglio intermittentemente impegnati nel disbrigo di commerci improbabili o ‘servizi’ demenziali: tutti provano a vendere qualche merce o servizio a tutti gli altri, in un’economia asfittica che non prevede la produzione e non potrà conoscere sviluppo. Intanto, i pochi grandi lavori, le infrastrutture, i progetti di sviluppo – quel po’ dei soldi degli ‘aiuti’ che non se ne va in pura e semplice corruzione, o per mantenere i funzionari occidentali che scorrazzano dappertutto (ma cosa fanno?) sulle loro lustre Toyota – li realizzano le grandi imprese straniere. Occidentali o, soprattutto, le onnipresenti cinesi. Con i loro tecnici. I cinesi si portano anche gli operai. Anche da qui, lavoro per gli africani non ne verrà. Non è solo una tragedia per la mancanza di reddito; è una tragedia anche per la mancanza di occasioni di disciplina, di fatica e di sofferenza comuni. Questa gente non può sviluppare alcuna coscienza di classe, alcuna dignità collettiva, alcuna etica del lavoro. Non è l’etica protestante che ha consentito lo sviluppo dello spirito del capitalismo: è la ferocia amorale dello spirito del capitalismo ad aver creato l’etica protestante. Qui, al caldo, è più facile ricordarsene. TO BE CONTINUED....

venerdì 4 marzo 2011

da Massimo... una storia per raccontare un po' d'Africa...




Rhumsiki

Jean-Pierre accompagna i turisti che vogliono camminare sui monti Kapsiki, al confine fra Camerun e Nigeria. Siamo nell’estremo nord del Camerun, lontanissimi dall’oceano. Più che di monti, si tratta di un altopiano sui mille metri, attraversato da alcuni valloni profondi, scavati dai fiumi che scorrono nella stagione delle piogge, e punteggiato da scogli di basalto che sbucano dal terreno e si alzano per cento o centocinquanta metri, dominando la pianura. Villaggi piccolissimi, sparsi nel piano a casaccio; cinque o dieci famiglie, ciascuna con il proprio recinto di pietra o mattoni di fango che racchiude capanne, magazzino-granaio e riparo per le capre, i maiali o gli asini. Ogni recinto è un po’ distante dagli altri; non ci sono vie, né piazze: non ci sono spazi pubblici, salvo il pozzo. In fondo al piccolo avvallamento attorno al quale il villaggio cresce, infatti, c’è un pozzo, talvolta con una pompa per sollevare l’acqua. È qui che le donne e le ragazze si trovano la mattina presto. Prendono l’acqua per la giornata.
Qui piove da maggio a ottobre, con le precipitazioni più forti in agosto. Da dicembre a marzo soffia l’harmattan dal Sahara che asciuga tutto in un continuo turbinio di polvere. È la fine di febbraio e tutto è tremendamente arido, i torrenti sono in secca, i campi rinsecchiti o bruciati, molti alberi hanno perso le foglie. Vacche e capre vagano nella calura tra baobab, acacie e tamarindi per trovare un po’ d’erba, ma mangiano soprattutto la paglia e le stoppie rimaste nei campi abbandonati. Da maggio ricomincerà la coltivazione: soprattutto miglio, arachidi, piselli e fagiolini. Non cresce altro; nemmeno le cipolle, che sono coltivate nella piana di Maroua e qui costano dieci volte più che in città.
Jean-Pierre ha ventun anni e lavora con Nicolas, il tizio che mi ha avvicinato mentre ancora scendevo dal piccolo autobus che mi ha portato a Maroua. Nicolas trova i turisti, vende loro un programma di viaggio, contatta gli autisti e le guide locali per chi vuole fare trekking; un agente di viaggio, insomma. Probabilmente guadagna abbastanza bene. Jean-Pierre, invece, sta qui a Rhumsiki, dov’è nato. Incontra i turisti all’hotel, dove Nicolas li manda e li porta in giro. Dice di avere anche dei clienti propri e di aiutare Nicolas “solo perché è un amico”, ma non credo che sia vero. Fa il gradasso. Vuol far credere più cose di quelle che sono alla sua portata. È troppo giovane per farmi arrabbiare, ma risulta irritante. Non ha nessuna idea di cosa voglia dire fare trekking con dei turisti. Cammina fortissimo, sia in pianura sia in salita; per le soste, non fa alcuna differenza fra posti belli o panoramici e schifezze; non sa dare nessuna indicazione sui tempi di percorrenza delle varie tappe; dice che si occuperà del cibo, ma per pranzo c’è solo una scatola di sardine, per cena quattro etti di pasta (o riso) con un sugo di pomodoro e per colazione del pane in cassetta, raffermo, con del tè.
Non me la prendo perché capisco presto che per lui, questo, significa mangiare tanto. E poi Jean-Pierre cerca di darsi da fare. Il suo sugo per la pasta o il riso (la seconda sera riesce anche a rimediare, non so dove, quattro bocconi di carne da spezzatino) è molto buono. Mi dice anche che non ha mai incontrato un turista che cammini veloce quanto me e che ci sono persone che ci mettono più del doppio a fare lo stesso percorso: questo lo rende molto più simpatico…
 Jean-Pierre ha un fisico bestiale (soprattutto per essere uno che, sostanzialmente, non mangia mai) ed è molto povero. Anche per gli standard di Rhumsiki, voglio dire. Molto povero, ma non poverissimo: ha un cellulare e parla qualcos’altro che la lingua kapsiki. I contadini e le contadine che incontriamo nei villaggi sono ancora, immensamente, più poveri: sono malnutriti, magrissimi con le pance gonfie, specialmente i bambini. La mortalità infantile è, ufficialmente, al 20% entro i cinque anni: a occhio, il dato suona sottostimato. Jean-Pierre è il terzo di sette figli (sei fratelli e una sorella); suo padre fa l’agricoltore, sua madre è morta una dozzina d’anni fa, per un ‘male al ventre’, dice. È stata operata, dopo la morte, dal fabbro del villaggio, che come al solito fa anche il chirurgo-dentista. Una specie di autopsia. Se non si fa così – mi spiega – il male può colpire altri membri della famiglia. Annuisco. Jean-Pierre è sorpreso che io non conosca cose tanto semplici Dopo che la moglie è morta, il padre ha dovuto vendere tutte le capre che aveva per sfamare i figli: così sono diventati poverissimi. .... TO BE CONTINUED