domenica 6 marzo 2011

da Massimo... seconda parte una Storia per raccontare un po' d'Africa.






Seconda parte... una storia per raccontare un po' d'Africa.

Jean-Pierre è probabilmente l’unico della sua famiglia che ha studiato – ha fatto le elementari e qualche anno di medie – parla francese e un po’ d’inglese. A undici anni andava a piedi da Rhumsiki al paese vicino per frequentare la scuola; tre ore di cammino all’andata, con partenza alle quattro e mezza ogni mattina, altrettante al ritorno. Ha smesso di studiare perché la scuola costava troppo: 12.500 cfa l’anno per l’iscrizione: un po’ meno di venti euro.
Rhumsiki è il villaggio più grande della zona e accoglie abbastanza turisti. Per questo ha un’economia più sviluppata degli altri villaggi. E poi ci sono l’energia elettrica, l’acqua corrente – almeno negli alberghi – e la copertura telefonica. Jean-Pierre ha lavorato tre anni in uno degli alberghetti del paese: senza coscienza né alcuna ironia, lo hanno chiamato ‘Petit Paris’. Si trovava bene, faceva un po’ di tutto: lui dice che era diventato il gestore e che l’albergo andava a gonfie vele. Poi, un compaesano ha ‘comprato’ il suo posto di lavoro; ha dato dei soldi al padrone dell’albergo e ha preso il posto di Jean-Pierre, che è stato licenziato da un giorno all’altro. Adesso – dice con soddisfazione – il ‘Petit Paris’ va malissimo, i turisti non ci vanno più; la moglie del padrone gli ha chiesto di tornare, ma lui – naturalmente! – non ci pensa nemmeno.
Ho chiesto a Jean-Pierre se vuole continuare a fare la guida. Mi ha risposto che non è un mestiere con cui campare; forse, quando sarà vecchio: ma adesso lui ha bisogno d’altro. Dice che tutti i posti di lavoro, qui nel nord del Camerun, si comprano. Se non hai i soldi non puoi nemmeno cominciare a lavorare: non ti resta altro da fare che coltivare la terra per sfamarti. E’ quello che Jean-Pierre non vuole rassegnarsi a fare. La sua idea, per evitare la sorte che non vuole accettare, è di entrare nell’esercito. Gli servono 50.000 cfa per provare a entrare nel ‘BIR’ – una specie di corpo speciale di intervento rapido: i marines del Camerun, a quanto capisco.
Ha già provato una volta: ha pagato la cifra e ha fatto un anno di addestramento durissimo. Quaranta chilometri di marcia con un sacco da cinquanta chili in spalla. Oppure: venticinque chilometri di corsa con venticinque chili in spalla. È una specie di gara a eliminazione: chi arriva fra gli ultimi viene escluso dal corso e va a casa. Mi ha raccontato di ragazzi morti d’infarto durante le prove. Jean-Pierre ha finito l’addestramento, ma non è stato preso lo stesso; alla fine, tra i superstiti, c’è un’estrazione a sorte: il suo nome non è uscito. Lo racconta senza rabbia né senso d’ingiustizia; è una cosa che è successa. Ha deciso di riprovare; risparmia per mettere insieme i 50.000 cfa che gli servono; poi farà un altro anno di addestramento. Dice che è l’ultimo tentativo; se fallirà un’altra volta, si rassegnerà a fare il contadino, come il resto della sua famiglia. “Coltivare miglio e arachidi per sfamarsi; così per tutta la vita, fin quando muori”.
Ho provato a chiedere se non ci sono delle alternative meno folli. Perché non provare ad andare in città – Maroua è a tre ore di autobus – per trovare un lavoro? Risponde che le industrie non ci sono; commercianti e artigiani impiegano solo i propri figli, oppure offrono salari da schiavo; per ottenere un posto pubblico, di qualunque genere, si devono pagare cifre assurde. Il ‘posto’ nei marines è il meno caro di tutti. Questa assenza delle industrie, non solo in Camerun, ma in tutta l’Africa occidentale sotto il Marocco, per quel che ho visto, è evidentissima. Non ci sono le fabbriche. A parte qualche raffineria e qualche centrale elettrica, non ci sono quasi edifici industriali. Mi ricordo una fabbrica di birra, una di mangimi, una segheria; poco altro. Ci sono dappertutto i magazzini, però, per tutta una quantità di merci disparate, che riempiono gli onnipresenti mercati settimanali e i giganteschi mercati fissi delle capitali: vestiti e scarpe, attrezzi e materiale elettrico, secchi di plastica e pentole di latta, telefoni cellulari e accendini, cianfrusaglie di ogni genere. Sono, soprattutto, cose di qualità scarsa e prezzo bassissimo, d’accordo: però si vendono, hanno un mercato.
Il problema, infatti, non è l’assenza di un mercato per la produzione industriale. Gli africani sono poverissimi, ma consumano anche loro. Il problema è che tutto quello che si vende e si consuma qui è fabbricato altrove. Si trova ancora, nei mercati, un sacco di schifezze prodotte in Francia o più in generale in Europa; perfino qualcosa che viene dall’Italia – ho trovato delle sconosciutissime marche italiane di pasta, d’olio d’oliva, di crema di nocciole e di vermuth(!), non chiedetemi cosa ci sia dentro. Ma il grosso, ovviamente, viene dalla Cina. I magazzini dei commercianti cinesi all’ingrosso sono in tutte le piazze delle città africane. La merce arriva con i grandi cargo che scaricano nei porti sul golfo di Guinea e viene trasportata dai camion in tutto il continente; nel mercato più povero del villaggio più sperduto, troverete ancora ciabatte, mastelli di plastica, batterie e magliette (taroccate, di tutte le grandi squadre di calcio europee) prodotte in Cina. Compreso il trasporto via mare, il costo del prodotto è così basso che impedisce il sorgere di un’industria locale.
È la solita storia del neo-colonialismo: non dovrebbe sorprendermi, però, vista da vicino, fa male. E passa un po’ di carta vetrata sulla faccia delle mie solide convinzioni a favore del mercato. Con la panzana del ‘libero commercio’ e con le relative politiche, imposte da Banca Mondiale e WTO, l’Africa non potrà mai sviluppare la propria industria ed è condannata a restare un mercato, povero ma non irrilevante, per le merci di bassa gamma dei Paesi industriali di turno. Sono solo cambiati i beneficiari. Per secoli gli inglesi hanno invaso d’immondizia il loro impero, distruggendo – soprattutto in India – le industrie locali; poi hanno cominciato a fare lo stesso le altre potenze coloniali europee; dopo sono venuti gli Stati Uniti e il Giappone. Adesso tocca ai cinesi. Tutti quanti, senza alcuna eccezione storica o geografica, protezionisti a favore della propria industria (non parliamo dell’agricoltura, perché c’è da vergognarsi) e “free-trade” per massacrare i mercati dei paesi poveri.
Intanto, senza i posti di lavoro che l’industria garantirebbe, gli africani che abbandonano le campagne in cerca di una vita meno indecente non possono che ammassarsi nelle periferie delle città: a fare niente. E infatti li si vede a decine di migliaia a Dakar come a Bamako, ad Accra come a Yaoundé. A far niente, o meglio intermittentemente impegnati nel disbrigo di commerci improbabili o ‘servizi’ demenziali: tutti provano a vendere qualche merce o servizio a tutti gli altri, in un’economia asfittica che non prevede la produzione e non potrà conoscere sviluppo. Intanto, i pochi grandi lavori, le infrastrutture, i progetti di sviluppo – quel po’ dei soldi degli ‘aiuti’ che non se ne va in pura e semplice corruzione, o per mantenere i funzionari occidentali che scorrazzano dappertutto (ma cosa fanno?) sulle loro lustre Toyota – li realizzano le grandi imprese straniere. Occidentali o, soprattutto, le onnipresenti cinesi. Con i loro tecnici. I cinesi si portano anche gli operai. Anche da qui, lavoro per gli africani non ne verrà. Non è solo una tragedia per la mancanza di reddito; è una tragedia anche per la mancanza di occasioni di disciplina, di fatica e di sofferenza comuni. Questa gente non può sviluppare alcuna coscienza di classe, alcuna dignità collettiva, alcuna etica del lavoro. Non è l’etica protestante che ha consentito lo sviluppo dello spirito del capitalismo: è la ferocia amorale dello spirito del capitalismo ad aver creato l’etica protestante. Qui, al caldo, è più facile ricordarsene. TO BE CONTINUED....

Nessun commento:

Posta un commento